Filippine, ritrovamenti in antiche caverne stravolgono le migrazioni preistoriche

Isola del Sud Est Asiatico (ISEA) e Sunda

Il racconto dell’evoluzione umana continua a sorprenderci con lacune inaspettate. Di tanto in tanto emerge un ritrovamento che ci obbliga a rivedere tutto, proprio quando crediamo di avere un quadro completo. Mindoro, un’isola filippina che oggi appare semplicemente come una destinazione esotica, ci ha appena riservato una rivelazione sconvolgente.

Ricercatori filippini, affiancati da colleghi internazionali, hanno dedicato anni all’esplorazione di cavità e anfratti rocciosi che all’apparenza sembrano solo scenari pittoreschi. All’interno, tuttavia, custodiscono una narrazione ben diversa: quella di gruppi umani giunti in questi luoghi decine di migliaia di anni prima rispetto a quanto ipotizzato finora. E non si trattava di rozzi raccoglitori armati di bastoni. Tutt’altro.

Queste popolazioni padroneggiavano la navigazione, pescavano in acque profonde, interpretavano i movimenti del mare con la stessa naturalezza con cui oggi consultiamo le previsioni meteorologiche. La cosa straordinaria è che compivano queste azioni in un’epoca in cui – stando ai testi convenzionali – l’umanità sarebbe stata ancora troppo arretrata per avventurarsi da un’isola all’altra.

Un enigma temporale

Mindoro non è un lembo di terra raggiungibile con una nuotata improvvisata. Anche durante il Paleolitico, per approdarvi occorrevano pianificazione, competenze e attrezzature specifiche. Chiunque vi abbia messo piede doveva affrontare tratti marini complessi. Non esistevano collegamenti terrestri naturali tra le coste. Inevitabilmente, queste genti disponevano di imbarcazioni e conoscevano perfettamente le dinamiche marine.

Cosa implica tutto questo? Che la cultura marittima autentica non si è sviluppata in tempi recenti, come abbiamo sempre sostenuto. Era già consolidata molte decine di millenni addietro. E le Filippine, a quanto emerge, non costituivano una periferia remota, bensì un punto di incontro strategico.

L’aspetto notevole è che i ricercatori non si sono affidati a suggestioni teoriche. Nessuna fantasia. Solo stratificazioni nelle caverne, manufatti ricorrenti, datazioni rigorose. Quando si rinvengono conchiglie consumate secondo modalità identiche, resti di pesci d’altura e arnesi lavorati seguendo la medesima tecnica in periodi diversi, il significato è inequivocabile: queste persone abitavano stabilmente quei luoghi, e prosperavano.

Testimonianze dalle cavità rupestri

Nelle caverne di Bubog 1, Bubog 2, Cansubong 2 e Bilat, gli esperti hanno individuato ben più di semplici tracce di accampamenti temporanei. In ciascuno strato di sedimento, in ogni sezione analizzata, emergono comportamenti radicati: alimentazione basata su molluschi raccolti in quantità, pesci di scogliera insieme a specie pelagiche, utensili realizzati con pietra, osso e valve di grandi dimensioni.

La presenza di pesci che popolano acque profonde, ad esempio, comunica un messaggio inequivocabile: non raccoglievano semplicemente ciò che trovavano a riva. Possedevano imbarcazioni. Disponevano di strumenti idonei. Conoscevano le tecniche di navigazione. E non agivano in isolamento. Alcuni manufatti in ossidiana scoperti a Mindoro presentano la stessa composizione chimica di quelli rinvenuti nell’isola di Palawan. Questo indica scambi commerciali, relazioni, conoscenze condivise. Altro che comunità isolate: facevano parte di una rete interconnessa.

La ricerca produce un effetto particolare: restituisce ai nostri predecessori una sofisticazione che, per qualche motivo, abbiamo sempre sottovalutato. Abbiamo costantemente pensato che l’insediamento su isole lontane fosse un fenomeno tardivo, emerso quando le capacità tecniche erano già evolute. Invece la realtà è diversa. L’oceano faceva già parte integrante delle loro esistenze, dei loro movimenti, della loro sussistenza. La distanza temporale che ci divide da loro non altera il fatto che il mare, per queste antiche comunità, rappresentasse un elemento familiare. O un alleato da rispettare, a patto di comprenderlo.

E l’aspetto intrigante (o destabilizzante, per chi preferisce le certezze granitiche) è che questa scoperta non conclude l’indagine. La rilancia. Chi progettava quelle imbarcazioni? Come si modificavano con le stagioni? Le tecniche di pesca si diversificavano? E le variazioni climatiche, in che modo condizionavano gli spostamenti? Interrogativi che rendono questa vicenda dinamica, contemporanea, pronta a dischiudere nuovi orizzonti.

Una narrazione riemersa

Insieme ai manufatti, ciò che si delinea è il profilo di comunità che non subivano passivamente gli eventi. Ne erano artefici. Sapevano fronteggiare la penuria di risorse, le tempeste, le mutazioni del mare. Sapevano quando stabilirsi e quando migrare. E probabilmente comunicavano, commerciavano e cooperavano con altri gruppi su isole differenti. È una vicenda molto più concreta, ricca di ingegno e umanità rispetto a quanto i manuali ci avessero tramandato.

La ricerca, pubblicata su Archaeological Research in Asia, non ci rivela soltanto “chi fossero”. Ci dice qualcosa anche sul nostro conto: che il nostro rapporto con l’ambiente, specialmente con l’elemento marino, è più antico, più profondo e più inventivo di quanto avessimo mai riconosciuto.

Fonte: Archaeological Research in Asia