Negli ultimi anni, la tutela dei dati personali è diventata il mantra di Apple. Un messaggio potente, ripetuto come un impegno verso gli utenti. Ma quando questa protezione si trasforma in uno strumento per danneggiare chi opera nel mercato delle applicazioni? A questa domanda ha dato risposta l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato italiana, comminando alla società di Cupertino una sanzione record superiore a 98 milioni di euro per sfruttamento abusivo della propria posizione di mercato.
Una sentenza che solleva questioni che vanno oltre la semplice competizione commerciale, toccando temi centrali anche per i lettori di GreenMe: giustizia, accountability, influenza delle corporation tecnologiche e impatto delle loro decisioni.
L’app store come monopolio di fatto
La compagnia californiana gestisce un punto di passaggio ineludibile: l’App Store, l’unica via d’accesso per raggiungere chi utilizza dispositivi iPhone e iPad. In questo ambito, ha stabilito l’AGCM, Apple detiene una supremazia indiscussa. Non si tratta di una sottigliezza giuridica, ma di un elemento concreto: per chi sviluppa applicazioni su iOS, quella piattaforma è inevitabile.
È proprio sfruttando questa supremazia che, dal 2021, la multinazionale ha introdotto l’App Tracking Transparency, il sistema che mostra una notifica sullo schermo richiedendo l’autorizzazione al monitoraggio delle attività. Un avviso che tutti abbiamo incontrato e che, spesso, abbiamo respinto rapidamente.
La questione non riguarda la richiesta di autorizzazione in sé. Il nodo è il metodo applicato. Secondo l’Antitrust, il meccanismo ATT obbliga chi sviluppa app di terze parti a compiere un’operazione assurda: sollecitare due volte la medesima autorizzazione. La schermata imposta dalla società non basta per conformarsi completamente alle norme sulla riservatezza. Gli sviluppatori devono aggiungere una seconda richiesta, generando un effetto di affaticamento negli utenti che riduce significativamente i consensi ottenuti.
E qui emerge il quadro completo. Meno autorizzazioni equivalgono a meno informazioni raccolte, che si traducono in campagne pubblicitarie meno mirate, e di conseguenza minori guadagni per chi dipende dalla pubblicità digitale. Un danno particolarmente grave per i piccoli operatori, le realtà emergenti, chi tenta di competere senza le risorse delle grandi corporation.
Protezione dei dati o strategia di mercato?
L’Autorità è esplicita su un aspetto: nessuno contesta il valore della riservatezza. Al contrario. Tuttavia, la salvaguardia delle informazioni personali non può trasformarsi in un alibi per imporre norme più restrittive del dovuto, specialmente quando esistono alternative meno lesive per il mercato.
Secondo l’AGCM, la società avrebbe potuto assicurare identica protezione permettendo agli sviluppatori di ottenere il consenso attraverso un’unica procedura, eliminando quella doppia richiesta che oggi penalizza l’intero settore della pubblicità mobile.
E mentre gli altri operatori subiscono perdite, Apple – sottolinea il provvedimento – continua a trarre vantaggi economici: maggiori provvigioni sulla piattaforma e un’espansione dei propri strumenti pubblicitari, che non sono vincolati dalle stesse limitazioni imposte agli altri.
La sanzione da 98,6 milioni di euro, emessa il 22 dicembre 2025, rappresenta più di una penale. È un segnale chiaro. Dimostra che anche nel mondo digitale, come nell’ecosistema ambientale, le decisioni dei grandi player generano conseguenze sistemiche. Quando il potere si concentra eccessivamente, il rischio è annullare la varietà, l’innovazione, la possibilità di scelte alternative.
E forse la vera riflessione, per noi che utilizziamo questi servizi, è questa: vogliamo realmente un ecosistema digitale più equo solo nelle dichiarazioni, oppure siamo disposti a pretendere responsabilità anche dai colossi tecnologici?
Fonte: AGCM
