Vesuvio e Pompei: scoperto come i Romani creavano cemento indistruttibile

Pompei

La città sepolta dal Vesuvio non smette mai di stupirci. Ogni volta che Pompei decide di condividere i suoi segreti, lo fa con una potenza che ribalta certezze consolidate. L’ultima rivelazione proviene da un’area di lavoro antica rimasta sigillata sotto la coltre vulcanica, preservata in modo così perfetto da sembrare abbandonata solo ieri. In questo scenario cristallizzato nel tempo, gli studiosi del MIT hanno individuato la chiave di un enigma millenario: la vera tecnica con cui i Romani realizzavano il loro calcestruzzo leggendario.

La soluzione, sorprendentemente, si discosta dalle indicazioni tramandate da Vitruvio. Pur riconoscendone l’autorevolezza, dobbiamo ammettere che anche le fonti più affidabili possono contenere lacune. Il gruppo coordinato da Admir Masic ne ha fornito la dimostrazione inequivocabile: gli antichi costruttori applicavano il metodo del “hot-mixing”, un procedimento in cui la calce viva veniva combinata allo stato asciutto con materiale vulcanico, ricevendo acqua solo successivamente. Una scelta apparentemente arcaica rispetto agli standard contemporanei, eppure straordinariamente funzionale: durante il contatto con l’acqua, la calce genera calore e produce quei caratteristici noduli biancastri in grado di dissolversi nuovamente quando l’umidità filtra nelle fessure, permettendo al materiale di autoripararsi.

Ecco spiegata la straordinaria longevità di strutture, edifici e infrastrutture portuali che hanno attraversato venti secoli di sismi, erosione marina e agenti atmosferici. Nessun sortilegio: solo reazioni chimiche, ingegno pratico e attenta osservazione della natura.

Il cantiere pompeiano come testimone perfetto di tecniche dimenticate

L’area di costruzione riportata alla luce a Pompei rappresenta un’autentica capsula del tempo dell’architettura romana. Erano presenti cumuli di componenti pronti per l’impiego, strumenti abbandonati da operai che non ebbero modo di completare la giornata. Strutture murarie in fase di realizzazione e altre già solidificate. Masic le ha esaminate con l’approccio metodico di chi ricostruisce eventi del passato remoto. L’evidenza cruciale giaceva proprio in uno di quei depositi: frammenti di calce non spenta già amalgamati con cenere vulcanica, esattamente secondo le ipotesi formulate.

Ma c’è dell’altro. La pomice, elemento fondamentale della composizione, ha rivelato una varietà mineralogica ben superiore alle aspettative. Questi componenti reagiscono progressivamente, si trasformano, generano nuove formazioni cristalline che saturano le cavità e consolidano la struttura. Nessuna applicazione impeccabile, nessuna formula magica: semplicemente un processo naturale che prosegue la sua azione anche quando il sito è deserto da millenni.

L’aspetto più affascinante è che questa indagine non nasce tra provette e microscopi, ma immergendosi tra blocchi di pietra, residui di calce e sedimenti ancora carichi di memoria storica. Masic ha descritto l’emozione provata entrando nell’area archeologica, con la sensazione che gli operai potessero materializzarsi all’improvviso, pronti a riprendere le loro mansioni. L’archeologia, talvolta, possiede un’intensità vitale inaspettata.

Nel frattempo, la ricerca solleva un interrogativo di grande rilevanza contemporanea: quale senso ha continuare a fabbricare cementi dalla durata limitata a pochi decenni quando abbiamo davanti agli occhi una formula che attraversa i millenni? Masic, del resto, ha già scelto di trasferire queste intuizioni nel campo applicativo: la sua impresa, DMAT, sviluppa materiali dotati di capacità autorigeneranti. Non per replicare il passato, ma per recuperare conoscenze che abbiamo trascurato.

Probabilmente Vitruvio non sbagliava del tutto; forse siamo stati noi a interpretarlo superficialmente. In un frammento dei suoi scritti menziona un calore che si sviluppa nella miscela. Quel particolare, riletto attraverso le evidenze di Pompei, assume il valore di una conferma attesa da lungo tempo.

La ricerca ha ricevuto sostegno dal MIT Research Support Committee e dal Concrete Sustainability Hub, segno tangibile dell’importanza di questa scoperta non solo per la comprensione storica, ma per lo sviluppo dei materiali futuri.

Fonte: MIT