Dopo gli scandali emersi con i file rivelati da Frances Haugen, nuovi documenti acquisiti da Reuters gettano ulteriore luce sui comportamenti controversi di Meta. Al centro dell’attenzione c’è uno studio interno condotto da Facebook nel 2020, periodo in cui l’azienda cercava di ricostruire la propria immagine dopo lo scandalo Cambridge Analytica.
Stando alle testimonianze depositate presso il tribunale distrettuale della California settentrionale, nell’ambito di un’azione legale avviata dallo studio Motley Rice a nome di numerosi istituti scolastici statunitensi, Meta avrebbe intenzionalmente bloccato una ricerca che dimostrava una correlazione diretta tra l’utilizzo di Facebook e il deterioramento del benessere psicologico degli utenti.
L’iniziativa era stata battezzata “Project Mercury”. I ricercatori di Meta, affiancati dalla società di analisi Nielsen, avevano seguito un campione di utenti che aveva deciso di “sospendere” Facebook temporaneamente. Secondo quanto documentato internamente, coloro che si erano astenuti dall’uso della piattaforma per sette giorni riportavano una diminuzione significativa di stati ansiosi, sintomi depressivi, sensazione di isolamento e tendenza al paragone sociale.
Un esito scomodo che, secondo gli atti giudiziari, spinse Meta a bloccare la ricerca, giustificando internamente la decisione con il fatto che i dati fossero influenzati dalla “copertura mediatica già presente” sugli effetti nocivi dei social network.
Tuttavia, nelle comunicazioni interne citate nei documenti processuali, almeno un membro del team di ricerca difese con fermezza l’attendibilità dei risultati:
La ricerca Nielsen dimostra un effetto causale sul confronto sociale.
Un altro collaboratore arrivò a un confronto ancora più duro, affermando che nascondere quei dati ricordava il comportamento dell’industria del tabacco che, pur essendo a conoscenza della pericolosità delle sigarette, occultava le prove al pubblico.
Le dichiarazioni di Meta e le incoerenze rilevate
All’interno dell’azienda, secondo i documenti, Meta avrebbe discusso apertamente la rilevanza dei risultati del “Project Mercury”. Ma verso l’esterno, l’atteggiamento sarebbe stato diametralmente opposto. Gli atti depositati in tribunale sostengono che Meta avrebbe dichiarato al Congresso di non disporre dei mezzi per determinare se i propri servizi potessero arrecare danno alle giovani utenti, una risposta che oggi, alla luce di queste rivelazioni, appare profondamente incoerente.
Il portavoce Andy Stone, in una nota inviata a Reuters, ha respinto ogni addebito, affermando che lo studio fu interrotto unicamente per difetti metodologici e ribadendo che l’azienda avrebbe lavorato “da oltre dieci anni” per potenziare le funzionalità di protezione rivolte ai giovani.
Meta ha inoltre contestato la decisione dei querelanti di rendere pubblici i documenti interni, sostenendo che la loro richiesta fosse “eccessivamente estesa”. L’udienza per esaminare il materiale è programmata per il 26 gennaio.
Oltre lo studio interno Facebook
Il “Project Mercury” rappresenta solo uno dei molteplici elementi contenuti nell’ampio dossier depositato da Motley Rice. Le accuse mosse a Meta, Google, TikTok e Snapchat sono di estrema gravità: secondo i querelanti, le società avrebbero celato a genitori, educatori e utenti i pericoli dei loro stessi servizi, promuovendo contemporaneamente la diffusione dell’uso tra i minori.
Tra le contestazioni più severe, i documenti riferiscono che Meta avrebbe sviluppato strumenti di protezione per i giovani deliberatamente inefficaci, arrivando a bloccare test che avrebbero potuto diminuire il coinvolgimento degli adolescenti. Meta avrebbe inoltre accettato consapevolmente che ottimizzare i propri algoritmi per incrementare l’engagement dei teenager comportasse esporli anche a contenuti più pericolosi, ma avrebbe proseguito comunque. La lotta ai predatori online sarebbe stata ritardata per anni per non compromettere l’espansione della piattaforma, mentre il personale dedicato alla sicurezza sarebbe stato spinto a giustificare l’inerzia.
In un messaggio del 2021, Mark Zuckerberg avrebbe dichiarato di non poter indicare la protezione dei minori come sua priorità assoluta, perché concentrato su altri obiettivi, in particolare la realizzazione del metaverso. I documenti riportano inoltre presunte pressioni per impedire che la divisione guidata allora da Nick Clegg ottenesse maggiori risorse da destinare alla sicurezza dei minori.
Le accuse agli altri social: il caso TikTok e il coinvolgimento della National PTA
Nel dossier, TikTok viene accusata di aver finanziato la National PTA, un’organizzazione no profit dedicata a famiglie e bambini, vantandosi poi internamente della capacità di condizionarne le posizioni pubbliche. Secondo i documenti, i dirigenti del social avrebbero affermato che l’associazione sarebbe stata pronta “a fare qualunque cosa” nei mesi successivi, inclusi comunicati stampa e dichiarazioni del CEO a sostegno della sicurezza della piattaforma.
Google e Snapchat, invece, avrebbero evitato di commentare immediatamente le accuse. Meta respinge tutto: secondo Stone, il materiale sarebbe costruito su citazioni estrapolate e opinioni distorte, mentre le funzionalità di protezione per adolescenti sarebbero “ampie ed efficaci”. L’azienda nega ogni tentativo di occultamento e sostiene che il processo stia fornendo un ritratto fuorviante del suo operato.
In ogni caso, la battaglia legale si preannuncia lunga e articolata. E il cuore della disputa continua a essere sempre lo stesso: quanto realmente sapevano i giganti social sugli effetti delle loro piattaforme? E quante volte lo hanno taciuto?
Fonte: Reuters
