Immortalare le comete: guida pratica per scatti celesti mozzafiato

Cometa 3I Atlas

Le comete esercitano un fascino irresistibile anche su chi non ha mai rivolto una fotocamera verso la volta stellata. Arrivano senza preavviso, splendono a loro piacimento e spariscono nell’oscurità cosmica. Quando una di esse illumina il cielo notturno, il desiderio spontaneo è sempre identico: catturarne l’immagine. Poi si scopre che riprenderla non equivale affatto a scattare una foto al crepuscolo marino. Tuttavia, ogni fotografia cometaria rappresenta una testimonianza della storia del nostro Sistema Solare. Costituisce un’opportunità per osservare un oggetto che trasporta ghiaccio e particelle antiche di eoni. Un’immagine realizzata con maestria può persino trasformarsi in materiale prezioso per la ricerca astronomica.

Prima di comprendere le tecniche fotografiche per riprendere questi corpi celesti, merita raccontare cosa accade quando ogni elemento si allinea perfettamente. È quanto successo con la cometa 3I/ATLAS, riapparsa dopo il transito solare e tornata visibile durante le lunghe notti degli osservatori sparsi nel mondo. Questa volta, però, il suo ritorno non è stato documentato da giganteschi telescopi spaziali come Hubble o James Webb, ma dall’obiettivo di un fotografo che alla notte chiede sempre qualcosa in più.

Fotografie straordinarie di 3I/ATLAS

Nel Deserto Nero egiziano, un territorio dove persino il silenzio appare ancestrale e le dune oscure sembrano guardiani immobili, Osama Fathi ha orientato la sua Nikon Z6 modificata per l’astrofotografia insieme a un RedCat portato a una focale equivalente di circa 750 mm. Era l’alba del 29 novembre 2025, uno di quegli istanti in cui la realtà quotidiana arretra per concedere spazio allo spettacolo celeste. La cometa galleggiava sopra l’orizzonte come un messaggio lasciato da qualcuno che non incontreremo mai: una scia verde, delicata ma nitida, che svelava la presenza di cianogeno nella chioma.

Fathi lo descrive come un incontro sospeso nel tempo. Le tre del mattino, l’aria ferma, nessuna illuminazione artificiale a contaminare l’atmosfera. Intorno a lui, soltanto il respiro del deserto e quella cometa che, proveniente da un altro sistema planetario, era giunta proprio lì, appena sopra la sua posizione. Per catturare ogni sfumatura dell’ospite cosmico, il fotografo ha assemblato l’immagine finale sommando sessanta esposizioni da un minuto e altrettante da trenta secondi a ISO 1500. Una dedizione meticolosa che gli ha consentito di rivelare la chioma, le tonalità più sottili, persino il movimento quasi invisibile rispetto al firmamento fisso.

La sua comparsa invernale è così favorevole da permettere anche a chi dispone di strumentazione basilare – compresi i telescopi automatizzati di ultima generazione – di individuarla rapidamente. Fathi la definisce una visitatrice temporanea. Più antica del Sole, destinata a ripartire senza lasciare tracce. Eppure basta una fotografia per sentirsi partecipi di quel viaggio, anche solo per un attimo. È probabilmente questo il fascino più autentico dell’astrofotografia: non serve un veicolo spaziale, bastano un po’ di oscurità, una fotocamera e la determinazione di attendere.

Tecniche per riprendere una cometa

L’aspetto più paradossale nel fotografare questi oggetti celesti è che, mentre elimini il movimento causato dalla rotazione del pianeta con una montatura ben calibrata, la cometa si sposta autonomamente, quasi a suggerire: “Segui me, non le stelle”. E questo, inevitabilmente, rende tutto più complesso. Una cometa luminosa può essere immortalata con una reflex e un obiettivo standard. Se invece risulta più fioca, occorre un telescopio abbinato a una camera più performante. Nulla di irrealizzabile: basta comprendere che non esiste l’equipaggiamento ideale universale, ma la combinazione più appropriata alla cometa osservata.

La vera complessità emerge con le esposizioni. Una singola posa da 30, 60 o 120 secondi generalmente è sufficiente, poiché il movimento cometario non risulta ancora così marcato. Ma quando cominci a sommare più scatti – la celebre tecnica dello stacking, fondamentale per ottenere immagini nitide e ricche di particolari – ti ritrovi a integrare minuti o addirittura ore di spostamento cometario. A quel punto le stelle rimangono perfettamente ferme, ma lei si allunga come una striscia luminosa.

L’unica soluzione efficace consiste nel creare due immagini distinte: una elaborata sulla cometa, una sulle stelle. È quasi come gestire due universi paralleli che poi, alla fine, unifichi in una singola immagine armoniosa. Numerosi software offrono supporto: DeepSkyStacker, PixInsight, Astrometrica, persino Gimp o Photoshop se conosci le procedure corrette.

La fase più critica rimane la messa a fuoco

Nulla è più impietoso di una cometa sfocata. Per prevenirlo si utilizza il Live View della fotocamera, ingrandito al massimo. Si avvicina il punto di fuoco, lo si supera, si ritorna indietro. Lo si identifica gradualmente, come quando finalmente riconosci cosa osservi in una vecchia fotografia di famiglia.

E poi c’è un ulteriore aspetto rilevante: le correzioni. I dark frame rimuovono il rumore termico. I flat field eliminano ombre e difetti dell’ottica. Niente di affascinante, ma essenziale se desideri che la cometa rimanga protagonista senza aloni o macchie indesiderate.

Quando lo scatto diventa contributo scientifico

Se decidi di compiere un ulteriore passo, scopri che non stai semplicemente fotografando: stai raccogliendo dati. Le pose brevi, tra 30 e 120 secondi, servono per ottenere informazioni fotometriche o astrometriche attendibili. In questi casi devi scegliere se allinearti alle stelle o alla cometa, consapevole già che uno dei due elementi risulterà compromesso. Le tecniche più sofisticate permettono addirittura di isolare la cometa eliminando le stelle da ogni fotogramma, per poi ricostruire il campo stellare separatamente. Una sorta di chirurgia digitale, preziosa quando desideri una misurazione pulita e accurata.

Se la fotografia ti soddisfa, puoi inviarla alla British Astronomical Association, formattando il nome del file in modo rigoroso – una sorta di documento d’identità dell’immagine – e specificando scala, orientamento e data. Gli scienziati apprezzano: le comete sono materiali primordiali, conservati nel freddo cosmico da un’epoca in cui il Sistema Solare stava ancora formandosi. E ogni osservazione, anche la tua, può svelare qualcosa sulla loro attività.

Qui si entra nell’ambito tecnico, ma tutto resta accessibile. Per misurare la posizione della cometa si utilizzano camere CCD e scale precise, calcolate con la formula che collega focale e dimensione dei pixel. Si effettua il plate solving, si identificano le stelle di catalogo e si deduce il punto esatto in cui si trova il nucleo. A quel punto il software genera il file secondo gli standard del Minor Planet Center, l’archivio mondiale che raccoglie tutte le misurazioni di comete e asteroidi.

La fotometria: determinare la luminosità

La brillantezza si misura utilizzando immagini FITS allineate in due modalità differenti: una sulla chioma e una sulle stelle. Il programma Comphot elabora i dati tramite un comando che sembra provenire da un vecchio videogioco, ma è efficace.
I filtri più impiegati sono il V e l’R, poiché separano la luce riflessa da quella emessa dai gas della chioma. È una distinzione cruciale per comprendere come evolve la cometa e come si comporta nelle ore e nei giorni seguenti.

Ed è questo, in definitiva, il nucleo di tutto: puoi avvicinarti a una cometa con lo stupore di chi osserva il cielo per la prima volta, oppure con la pazienza di chi vuole seguirne l’evoluzione. In entrambi i casi, fotografare una cometa significa essere presenti nell’istante esatto in cui un frammento del passato remoto decide di rivelarsi. E questa è già una valida ragione per tentare.

Fonte: Harvard